QUANDO SI ERA IN STATO INTERESSANTE
QUANDO SI ERA IN STATO INTERESSANTE
Le ansie taciute della maternità
“Ninna nanna, ninna oh
questo bimbo a chi lo do
lo darò al lupo nero
che lo tiene un anno intero…
ninna nanna nanna fate
il mio bimbo addormentate”
Mi capita talvolta che alcune donne diventino mamme durante il loro percorso terapeutico, offrendomi l’opportunità di condividere con loro un’esperienza unica, intima e complessa.
L’attesa di un bebè comporta una riorganizzazione totale dell’esistenza, una vita nuova che entrerà necessariamente – e in tutta la sua interezza – nella stanza d’analisi dove la scelta del passeggino, i problemi al lavoro, le nausee, la gioia delle prime ecografie che mostrano il naso o i piedini, le recensioni sui pannolini, i consigli delle amiche, i desideri della mamma, quelli del papà, quelli dei nonni, le aspettative, i sogni e le varie leggende metropolitane sul parto si mescoleranno nel faticoso tentativo di integrarsi. Il tutto riorganizzando i nostri incontri, rivedendo gli orari delle sedute, facendo pace coi piccoli malori improvvisi o, semplicemente con l’aumento di peso e quel gonfiore delle gambe che farà sì che tutte – tanto le salutiste quanto quelle che amano poco starci chiuse dentro – si arrenderanno alla comodità dell’ascensore e abbandoneranno l’abitudine di salire le scale per raggiungere il mio studio!
La prima cosa che ho imparato da queste esperienze è che non esiste la gravidanza, esistono – semmai – le gravidanze. Ogni donna è una storia a sé e anche il vissuto di ciascuna cambia durante le fatidiche 40 settimane, facendo sì che ogni esperienza sia costellata da molteplici sfaccettature.
Eppure, a livello sociale, la gravidanza è oggetto di una potente idealizzazione: come potersi permettere la paura, la tristezza, la rabbia, il non sapere che fare quando il mondo intero ti cuce addosso un vestitino di gioia serafica e ti racconta da secoli, pericolosamente, che è un figlio a renderti completa e realizzata? Come padroneggiare l’ansia che la maternità naturalmente porta con sé, se l’ansia non è contemplata o, peggio ancora, innominabile?
Eppure la gravidanza è ambivalente di natura: in biologia essa costituisce l’unica eccezione all’istocompatibilità, perché il feto, pur essendo un corpo estraneo portatore di un patrimonio genetico diverso, non viene rigettato. Il susseguirsi di sentimenti contrastanti nei confronti del futuro bambino sarebbero perfettamente naturali se non fosse per il corollario di sensi di colpa e di vergogna che sollevano e che spinge le donne al silenzio.
Le donne incinte vengono prese in carico, pesate, misurate, controllate sotto ogni aspetto; se ciò dal punto di vista medico è assolutamente un vantaggio, è vero anche che l’ onnipotenza tecnica che l’accompagna priva la donna della fiducia nelle proprie percezioni interne (ora ci sono perfino le app che scandiscono ogni giorno della gravidanza, strutturandola sulla base di passaggi e “obiettivi” da raggiungere).
Come mai la massiccia medicalizzazione della gravidanza finisce col non fornire alcuna rassicurazione e le angosce sul parto restano?
Un’espressione interessante, che oramai non si usa più, era quella che definiva la gravidanza uno stato “interessante”. Forse – in origine – un’espressione ingenuamente usata in un’epoca storica in cui questo processo era molto meno intellegibile e non era possibile proiettare tutto sugli schermi in tempo reale, ma che invece, rendeva benissimo l’idea delle luci e delle ombre, dei mutamenti improvvisi da gioia in angoscia tipici di questo peculiare momento di vita di una donna. Un’ambivalenza che veniva riconosciuta dalla collettività, che attribuiva alla gravidanza un che di “magico” , mutevole, inafferrabile completamente e univocamente.
Le rassicurazioni mediche e pragmatiche non sono sufficienti perché l’inconscio e i suoi fantasmi di vita e di morte le vanificano, mostrando un effetto di verità; una verità che la medicalizzazione e la profusione di consigli, tecniche, app, vorrebbero eclissare.
Le donne tacciono sulle loro ansie perché, di fronte a un enorme meccanismo medico di presa in carico, esse non trovano accoglienza; un’accoglienza possibile – a volte – solo nelle stanze d’analisi dove le più consapevoli si sentono libere di parlare senza sentirsi dei mostri.
Le pance così massicciamente esposte, fotografate, postate sui social, considerate perfino un elemento di moda, nascondono fantasmi e preoccupazioni da cui ogni madre è abitata: un travestimento per tacere una realtà fantasmatica più vera. Parlare di angoscia è reso ancor più difficile dal fatto che, pur essendo connessa al reale – e quindi con qualcosa che sta lì, è dato – resta imprendibile nella rete della significazione: essa si manifesta perché è fuori dal linguaggio. Proprio per questo la spinta del sociale verso il silenzio è ancor più pericolosa.
Il silenzio, però, è il peggiore dei nemici, perché ciò che non passa dalla parola, può passare dal corpo con esiti e agiti drammatici.
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