A HOUSE IS NOT A HOME
A HOUSE IS NOT A HOME
Pensieri sull'abitare di una psicologa durante la pausa pranzo
Mi sono sempre piaciute le case. Amo sfogliare le riviste di arredamento e scoprire nuove forme dell’abitare. Il mio piccolo appartamento non trova pace: sposto mobili, cambio mobili, imbianco, monto e smonto facendo tutto, spesso e volentieri, senza ricorrere a professionisti esterni, anche se il risultato talvolta non è il massimo! Mi piace modellare lo spazio intorno a me, godere della sensazione di mutevolezza, cambiamento e rinnovamento che regala il vagare con una cassettiera da una parte all’altra di una stanza.
Di recente questo mio personalissimo delirio abitativo si autoalimenta esponenzialmente grazie al fatto di ritrovarmi spesso a pranzare con un team di architette. Sono molto simili la psicologia e l’architettura, entrambe si occupano del rapporto tra un fuori e un dentro, tra lo spazio esteriore e lo spazio interiore, entrambe si rivolgono alle dimensioni dell’abitare: si abita una casa come si abita il proprio sé. E come se fossero l’una metafora dell’altra, perché abitare una casa è specchio del modo in cui noi abitiamo la nostra esistenza. Inoltre si abita anche anche fuori le mura domestiche, perché è possibile abitare un paesaggio, un paese, un mondo, ma anche una comunità, una città, le relazioni.
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Abitare, infatti, non è semplicemente occupare gli spazi, ma qualcosa di assolutamente intimo, in cui giocano un ruolo importante le abitudini, i ricordi biografici, gli affetti, gli attaccamenti, ivi compresi quelli relativi a ciò che ci rappresenta e a ciò che vogliamo sia rappresentato per noi.
D’altronde le parole abitudine e abitare derivano etimologicamente da Vesta, la dea del focolare. Casa è dove c’è un fuoco, rifugio, nido, protezione. Per qualcuno è la presenza della persona amata a trasformare un edifico in una casa, così come canta Luther Vandross nella classica “A house is not a home”, anteponendo così il senso di appartenenza a qualcuno alla presenza di un edifico; ed è interessante che proprio la lingua inglese abbia due parole diverse per denominare la casa, house e home, la prima per indicare l’edificio e la seconda per parlare del luogo dove si vive o verso cui ci si dirige. I go Home, vado a casa, per parlare di un posto che esiste prima nell’anima che presso un numero civico.
Come il ventre materno, la casa ci contiene (ed è stata per secoli il luogo in cui si veniva al mondo) e ci protegge quando compiamo i nostri primi passi, offrendoci tappeti su cui gattonare, sedie a cui appigliarci per tirarci su, angoli riparati, tavoli e letti sotto cui nasconderci quando combiniamo qualcosa o vogliamo fantasticare. Spazi che diventano, a loro volta, la nostra piccola casa all’interno della grande casa familiare. Se dunque la casa, ancor prima di essere un edificio è un luogo mentale e simbolico, quali significati avranno, per ciascuno di noi, le stanze che la compongono, la posizione che occupa e lo spazio circostante?
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Quale terreno, quali fondamenta alla base della nostra identità?
Come pensiamo e viviamo le nostre stanze, luoghi di soddisfazione dei nostri bisogni primari quali cibo, cura di sé, sessualità, socialità, ecc…?
La luce, i colori, la grandezza e l’organizzazione degli spazi, ma anche la praticità, il comfort, la sua predisposizione ad accogliere, tutto ci rappresenta, a prescindere dalle possibilità economiche che abbiamo. La quantità di denaro disponibile è sì un compromesso, ed è sano tenerlo bene a mente, ma se siamo persone che amano accogliere sacrificheremo un oggetto di design per due sedie e dei piatti in più. E viceversa. Non è nemmeno questione di gusto: quello che vogliamo per noi e per gli altri si vedrà lo stesso, anche se non siamo bravissimi con gli abbinamenti. Esistono poi i professionisti dell’abitare per aiutarci a tradurre ciò che abbiamo in mente per dare forma ai nostri luoghi di vita, in modo che essi ci accolgano e ci rappresentino nel modo migliore possibile, mai troppo statico e mai definitivo, perché la nostra identità è sempre in evoluzione e cambiamento, come d’altronde lo è la vita.
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Insomma queste frequenti e piacevoli occasioni prandiali, mi stanno offrendo l’occasione per osservare la casa da un punto di vista biografico e psicologico. Come sono le case delle persone felici e come sono, invece, le case di chi è solo e ha perso tutto? Come sono le case innamorate e come quelle abitate dalla violenza, dalla trascuratezza o l’abbandono?
E noi da quali di queste proveniamo? Cosa abbiamo mantenuto – nelle abitudini, nel modo di pensare e organizzare gli spazi, nei colori, negli arredi, nei ricordi – e di cosa, invece, ci siamo voluti sbarazzare?
Facciamo un gioco: chiudete gli occhi, immaginate una casa… e fatemi sapere com’è!
Chi sono?
SERENA PERONI PSICOLOGA E PSICOTERAPEUTA
Civitanova Marche, Fermo, Macerata
Mi sono laureata in psicologia clinica e di comunità presso l'Università di Urbino. Come psicologa ho svolto attività di docenza in corsi di formazione professionalizzanti per assistenti alla comunicazione. Corsi di formazione per insegnanti sui Disturbi specifici dell'Apprendimento. Sono stata cultrice della materia presso l'Università di Macerata per la disciplina di Patologia della comunicazione. Ho collaborato alla progettazione e realizzazione di screening per la dislessia. Ho conseguito la specializzazione quadriennale post-lauream in psicoterapia ad orientamento analitico presso l'Isipsé di Roma (istituto di specializzazione in psicologia psicoanalitica del sé e in psicoanalisi relazionale), approfondendo gli aspetti relativi all'intersoggettività e alle tematiche di genere. Ho conseguito l'abilitazione alla pratica EMDR (Eyes Movement Desensitization and Reprocessing). Svolgo attività di libera professione dal 2010.
CONTATTI:
tel : +39.393.3011605
email: dr.serenaperoni@gmail.com
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