Psicologa Psicoterapeuta, Civitanova Marche, Macerata

Se una pandemia diventa una guerra. Ovvero cosa si rischia a nominare male gli eventi.

Se una pandemia diventa una guerra.

Ovvero cosa si rischia a nominare male gli eventi.

“La guerra contraddice nel modo più stridente a tutto

l'atteggiamento psichico che

ci è imposto dal processo civile.”

S. Freud

La recente diffusione del Covid-19 ha comportato una serie di cambiamenti a livello mondiale:

abbiamo dovuto modificare le nostre abitudini sociali, igieniche e alimentari, cambiare gli orari, riorganizzare il lavoro e la gestione delle spese, inventarci un ritmo e trovare nuove soluzioni per cercare il più possibile di mantenere vivi i rapporti familiari, amorosi e sociali.

Nel giro di poco più di due settimane, la maggior parte di noi è passata dal vivere liberamente e senza sentire il bisogno di rendere conto di niente a nessuno ad uscire munita di un’autodichiarazione in cui ci si chiede di dire chi siamo, dove andiamo e perché. Ci viene anche chiesto, manco troppo velatamente, di assumerci perfino la responsabilità legale di essere untori inconsapevoli.

Possiamo mettere il naso fuori casa solo per impellente necessità e quelle finestre spalancate - che fino a dieci giorni fa erano grandi altoparlanti da cui provenivano le note dell’inno di Mameli, Pavarotti e “Nessun dorma”, Toto Cutugno e “L’italiano” e giù via altre perle nazional popolari - ora hanno le saracinesce abbassate, le persiane semichiuse, per consentire a chiunque ne senta la necessità di spiare, aggredire, insultare e segnalare (alla gogna dei social e nell’assoluto anonimato) qualsiasi essere vivente su due gambe si trovi a passare sotto la loro casa.

Alcune persone si lamentano del fatto che sta diventando mortificante e colpevolizzante perfino fare ciò che sarebbe concesso: se non basta la sentinella di quartiere a tapparci in casa ci pensano il drone o l’altoparlante dall’auto della polizia locale.

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ISRAEL. Haifa. 1949-50. Arriving immigrants.

"In verità, tutto per loro diventava presente; bisogna dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi."

Albert Camus: "La peste"

E così, senza nemmeno accorgercene, siamo passati dall’onnipotente “andrà tutto bene” scritto sotto un arcobaleno, ad “andrà tutto bene se restate a casa” fino a un più asciutto e desolante “restate a casa”. Non ci è concesso nemmeno più il periodo ipotetico.

All’appiattimento della vitalità e del senso del tempo se ne stanno aggiungendo velocissimamente almeno altri due: la riduzione della capacità di pensiero, di introspezione e di linguaggio, tutti profondamente interconnessi e interdipendenti. Si fa sempre più fatica a parlare di quello che ci sta succedendo.

E se da una parte è facile constatare come l’uso di certi meccanismi di difesa, funzionali per un po’, fosse destinato a fallire è vero anche che per poter narrare e narrarsi un evento straordinario come una pandemia occorre che ci sia dato il tempo di comprenderla, osservarla e conoscerla, partendo dal presupposto – imprescindibile- che essa è qualcosa del tutto sconosciuto per noi.

Ma davanti all’urgenza di fare, ridurre, controllare, risolvere e dimostrarela tentazione di rivolgersi a qualcosa che si conosce già, si fa troppo forte, specialmente se il rimedio rassicura e garantisce un certo il mantenimento di uno status quo.

“Se hai solo un martello, tratterai tutto come se fosse un chiodo”,sosteneva Marlow.

Significa che noi tendiamo a risolvere i problemi con i mezzi che abbiamo a disposizione, anche se non sono i più adatti.

Ed ecco che, in un tempo brevissimo a pandemia si sovrappone un’altra parola: guerra.

Non stiamo più affrontando una malattia, bensì un conflitto. Il linguaggio non sarà più scientifico, ma militare; si seguirà una mappa piuttosto che osservare il campo e le giornate saranno scandite dai bollettini dei morti e dei sopravissuti.

Davanti alla necessità di integrare in una visione complessa e articolata un evento drammaticamente straordinario, che non ha precedenti e che pone questioni che per essere risolte necessiteranno di originalità, cambiamento, creatività e sfruttamento delle conoscenze pregresse in modo del tutto nuovo, pur di non esporsi alla frustrazione, all’angoscia e alla fallibilità si preferisce usare il martello per tutto.

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Pieter Bruegel the Elder - Il trionfo della morte

Così la guerra è la diventata la zona di comfort.

Facciamo come si fa in guerra, così ci sentiamo tutti più tranquilli.

La guerra ci dice chi amare e chi odiare, chi sono i buoni e chi i cattivi, chi agisce e chi sta a guardare, cosa è permesso e cosa no, scandisce gli orari e decide cosa dobbiamo mangiare e bere con i buoni spesa: il pane sì, il vino no.

E man mano che questa narrazione prende piede nell’esistenza di tutti noi si definisce l’umanità: i soggetti e gli oggetti. Gli attori che balzano sulla scena e quelli che scompaiono.

Ma non è l’unico paradosso di questa situazione, perché così come non abbiamo a memoria una pandemia, altrettanto è vero per una guerra. L’ultimo grande conflitto nei nostri territori risale a oltre 70 anni fa, un lasso di tempo che esclude praticamente tutti noi dall’esperienza diretta degli eventi. Da quali conoscenze, quindi, stiamo attingendo?

Siamo attingendo tutto questo da una narrazione stereotipata. Stiamo prendendo esempio non da una realtà che conosciamo, ma da un mito: il mito della guerra e dei suoi eroi, tutti maschi.

Non a caso il linguaggio usato dai media e perfino dalle più alte cariche istituzionali si è mascolinizzato: ci sono solo medici, infermieri, virologi, esperti, militari. Sono questi gli attori, questi i soggetti.

Il resto è scomparso o è ridotto a corpi da scialuppa di salvataggio: il famoso “prima le donne, i bambini e i vecchi”, cioè prima quelli che in certe situazioni non hanno niente da dire né da dare.

E poco conta se stiamo buttando via una grossa opportunità evolutiva costringendo una realtà enorme, complessa e di certo spaventosa all’interno del solito millenario, rigido, parziale e fallimentare schema. Poco conta se i risultati saranno per tutti, una grave e insostenibile deformazione e un drammatico impoverimento della realtà interna ed esterna, oltre a un drammatico corollario di conseguenze psicologiche.

Sono bastate una manciata di settimane per far sparire dalla narrazione globale tutti quelle soggettività che, negli ultimi 70 anni hanno contribuito a rendere il mondo un posto più civile.

Sono scomparse le ricercatrici, le virologhe, le esperte, le militari, le sindache. Spazzate via, tutte. Restano le casalinghe, le mamme e le donne vittime di violenza domestica.

E che ne è di tutte le minoranze, che ne è delle persone omosessuali, bisessuali e transgender?

Come vivono la pandemia? Quali problemi hanno? Riescono a stare con le persone che amano? Possono permettersi una lacrima di solitudine? Possono permettersi di narrare la propria versione dei fatti? Possono raccontare di quanto è difficile in questo momento reperire gli ormoni? Come sopravvivono e a che prezzo coloro che, ad esempio non rientrano in nessuna delle categorie previste dagli ammortizzatori sociali?

Domande che paiono non avere un senso perché ora che siamo in guerra, proprio come allora, loro non esistono.

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