EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE (Tutto, ovunque, allo stesso tempo)
“Viviamo nel migliore dei mondi possibili”
G. Leibniz
AVVISO: CONTIENE TANTISSIMI SPOILER!!!
Quando ho annunciato alla mia amica super esperta di film, il mio desiderio di andare a vedere “Everything, Everywhere, all at once”, lei mi ha risposto: “Sicura? Ho sentito molti pareri contrastanti…pensa che c’è gente che è uscita dopo 20 minuti”
E’ probabile che volesse proteggermi dalle tante “sòle pazzesche” che ci sono capitate ultimamente mettendo cautamente le mani avanti, onde evitare due ore e un quarto di delusioni condite da quel tipo di commenti acidi che si fanno quando ci si sente letteralmente derubate dei 5 euro del biglietto (ebbene sì, lontano dalle Multisala Cartier olezzanti di Popcorn Sauvage, si paga ancora così).
Alla fine siamo andate lo stesso e, dopo una notte pressoché insonne, eccomi qui a scrivere che questo gioiello kitsch, caciarone e ridondante è, a mio avviso, uno dei film più belli che abbia mai visto.
C’è una donna cinese di mezza età di nome Evelyn proprietaria insieme al marito Waymond di una lavanderia a gettoni. Insoddisfatta cronica è alle prese con un’infinità di problemi, dalla ribellione adolescenziale della figlia Joy all’accudimento di suo padre affetto da demenza senile, al marito incapace di distinguere tra due tipi diversi di colore bianco.
A complicare tutto ci si mette il fisco che impone loro dei severissimi controlli per presunte frodi e irregolarità in merito al pagamento delle tasse. Evelyn è talmente accecata dal desiderio di salvare a tutti i costi la lavanderia dal fallimento (e salvare soprattutto sé dal trauma del rifiuto da parte del padre, dal tentativo fallito di rivalsa personale e sociale) da non accorgersi nemmeno che il timido marito — troppo leggero, troppo giocoso, troppo poco “uomo”, troppo poco idealizzabile, troppo poco desiderabile – sta preparando i documenti per il divorzio e che la figlia sta lentamente “morendo dentro” a causa della vergogna che la madre prova per la sua omosessualità.
E’ proprio il fisco a fornire l’ espediente narrativo per raccontare il senso di sopraffazione, la rabbia distruttiva, che può esplodere nella mente quando si inizia a pensare alla propria vita, ai fallimenti, a quello che si sarebbe potuto fare o diventare ma non è stato, o su ciò che avrebbe potuto essere o sarà. L’ufficio delle tasse, luogo della revisione dei conti, li scaraventa tutti in un multiverso di mondi e versioni di sé alternative.
La prima metamorfosi di Evelyn, da lavandaia disperata a eroina del kung fu e star del cinema, è condita da una battuta riferita al marito “Ho visto la mia vita senza di te, era bellissima” che gli viene inferta come una coltellata. E’ una frase durissima da digerire, perché in essa c’è tutta la frustrazione di una persona che nel sentirsi completamente insoddisfatta o inadeguata, diventa meschina nei confronti di chi la ama e sfoga sugli altri il proprio senso di fallimento. Come a dire : “se non ti avessi dedicato la mia vita, avrei potuto essere me stessa, vincente”. Evelyn ha un assaggio di onnipotenza e la prima cosa che fa è tentare di distruggere il nucleo degli affetti, attacca i legami, nell’illusione di potere essere chiunque senza bisogno di nulla.
Eppure Waymond incassa la coltellata senza dire nulla e non rinuncia ad accompagnare sua moglie in tutte le varianti possibili di lei nel multiverso. Lui che, inaspettatamente, conosce gli espedienti per entrare ed uscire dai vari universi e da cui ha imparato a prendere quello che serve per crescere senza rimanerne imprigionati.
Ed è proprio uno degli alterego “fighi” del marito, Alpha Waymond, a rivelarle che lei e solo lei potrebbe essere l’unica a salvare ogni universo esistente dalla minaccia di Jobu Tupaki: un essere che ha appreso ogni cosa del multiverso ed è in grado di vivere tutte le versioni di sé contemporaneamente, alla ricerca dell’annientamento totale, suo e di chiunque altro.
Quando Evelyn gli chiede perché “proprio lei”, lui le risponde che è proprio perché lei è l’unica ad avere innumerevoli versioni di sé tutte fallimentari, esattamente come quando, all’ufficio delle imposte, una puntigliosissima Deirdre Beaubeirdre (una Jamie Lee Curtis fantastica!) le chiede di rendere conto di tutte le ricevute di spese per l’acquisto di beni che non hanno niente a che vedere con la lavanderia ma, piuttosto, con tutti i desideri di vita alternativa di Evelyn ( cantante, massaggiatrice, ecc…).
Il tema del multiverso non è nuovo e molti sono i rimandi a Matrix, ma qui c’è un elemento fondamentale che, a mio avviso, fa la differenza:
Se in Matrix la ricerca della verità trasforma Neo in una sorta di semidio, un prescelto che resta sempre tale e come tale viene riconosciuto, qui restano sempre tutti più o meno sgangherati, comici, folli.
In questa storia i protagonisti per passare da una versione di sé all’altra “potenziata” devono compiere dei gesti apparentemente privi senso, ma tutti essenzialmente ridicoli, “infantili”, o “magici”, o umilianti (come farsi la pipì addosso). Questi passaggi ci ricordano che non esiste fantasia di onnipotenza senza che ci sia dietro un’esperienza traumatica, una paura o fantasia di umiliazione, inadeguatezza o frustrazione.
Inoltre, se da una parte diventano “onnipotenti”, dall’altra usano mezzi improbabili, restano buffi o prigionieri della loro immagine, come quando la versione Superstar di Evelyn incontra quella super fascinosa di Waymond uomo in carriera: appaiono perfetti per stare insieme, belli e vincenti e lei sembra – per la prima volta- provare un forte desiderio erotico nei suoi confronti. Alla fine non finiranno insieme, non costruiranno nulla e resteranno spettatori che guardano il film della loro altra vita.
Nessuno è mai riconosciuto come un semidio o una semidea, nemmeno quando Evelyn scopre di essere prescelta. L’onnipotenza non è mai una condizione definitiva ma un passaggio, una parentesi di protezione indispensabile a rendere tollerabile il lungo processo di presa di consapevolezza della realtà da parete dei protagonisti e dei loro limiti. Tant’è che nel momento in cui “Everything” accade, una Evelyn muore.
Tutto nella concretezza resta tale, non si può sfuggire alle tasse, metafora perfetta delle “cose della vita”; si possono però scegliere i valori alla base delle azioni, cosa è vero per i protagonisti. Se Jobu, il mostro terribile e nichilista che altro non è che la versione multiverso della figlia Joy, afferma che niente è importante, Waymond ci dice che se nulla è importante, allora possiamo scegliere ciò che conta.
Bellissima la scena in cui, in un multiverso evoluto in cui non c’è più bisogno degli esseri umani, Evelyn e Joy sono state trasformate in sassi insignificanti che stanno di fronte a una paesaggio di pietra. Proprio in questa condizione, Evelyn realizza quanto lei desideri stare con la figlia e – nonostante sia un masso – inizia a muoversi verso di lei. Usa le possibilità che il multiverso le offre per cambiare la sua condizione di pietra e andare verso di lei “rincorrendola” e improvvisamente sulla sua superficie liscia compaiono due occhi. “A prescindere da tutto, voglio ancora essere qui con te. Voglio sempre, sempre, sempre essere qui con te”. Dice alla figlia. L’amore è vedere, l’amore è una qualità dello sguardo.
Man mano che le esperienze nel multiverso si susseguono nella mente di Evelyn irrompono frammenti di ricordi: il primo, quello della sua nascita in Cina in cui si sente una voce dire “purtroppo è una femmina”, quello dei genitori che la rifiutano perché innamorata di Waymond, la loro fuga, le promesse, le speranze, il loro sogno americano fattosi lavanderia, la nascita della loro figlia, i litigi con lei ma anche la tenerezza, tutto. Più Evelyn va avanti nel suo percorso, più i ricordi cambiano “colore emotivo”, come se perdessero pian piano la connotazione traumatica dell’abbandono e del fallimento per divenire una sorta di “progetto verso il passato”, un’occasione per riscrivere e risignificare la propria esistenza. Un cambiamento che non ci viene narrato a parole, ma che lei inizia a incarnare nei comportamenti. Diventa meno distruttiva e inizia a usare i poteri per rendere felici gli altri (con esiti comicissimi… vi ho detto già che ho riso tantissimo?).
Quando ricomincia a vedere scopre che il marito non è uno che ha rinunciato a lottare ma un uomo che ha scelto di sperare, di non stare nella distruzione, di usare la gentilezza: è Waymond a sistemare sempre le situazioni nel mondo reale perché lui parla con la gente. Lui parla all’esattrice delle tasse riuscendo sempre a trovare il modo di posticiparle, lui – sempre imperfetto – sta nelle relazioni, media, accoglie. E’ lo stesso Waymond di Evelyn – ovvero quello proveniente dal suo stesso universo – che pronuncia le parole che la aiutano a trovare la volontà di lottare per ciò che conta. “So che state tutti combattendo perché siete spaventati e confusi. Anch’io sono confuso…L’unica cosa che so è che dobbiamo essere gentili… Siate gentili, soprattutto quando non sappiamo cosa sta succedendo”.
Evelyn prende consapevolezza di sé. Impara a vedere l’altro da sé e ad accettare di quello che gli altri sono (altro grande messaggio del film: tutti sono legittimati ad essere esattamente come sono). Il suo processo di individuazione, l’accettazione dei suoi limiti e la possibilità di una scelta passano inevitabilmente dal riconoscimento continuo di sé, della sua sofferenza, delle sue paure, ma anche dei suoi affetti autentici, dei legami e dei valori che la muovono, dalla capacità acquisita di trasformare.
Il suo processo di individuazione, anche quando non sembrerebbe, è e resta sempre un “essere con”.
Nessuno dei personaggi si perde, si salvano tutti, si salva la famiglia.
Per quanto riguarda le tasse….bè, mica posso spoileravi proprio tutto ;-D