Sentirsi soli da morire. Gli attacchi di panico
Se io vi chiedessi personalmente di dirmi che cos’è un attacco di panico, sono abbastanza sicura che la maggior parte di voi sarebbe in grado di darmene una definizione molto vicina a quella che è data dalla letteratura scientifica. Questo perché è molto probabile che ciascuno di noi ne abbia avuto almeno uno o che conosca qualcuno intorno a sé che l’abbia avuto o ne soffra.
Il disturbo da attacchi di panico, che viene definito in letteratura (DSM V) come “comparsa improvvisa di paura e disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, durante il quale si manifestano almeno 4 dei seguenti sintomi: palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia, sudorazione, tremori fini e/o grandi scosse, sensazione di soffocamento, dispnea, sensazione di asfissia, dolore al petto, nausea, disturbi addominale, vertigine, instabilità, svenimento, testa leggera, brividi o vampate di calore, torpore, formicolio, sensazione di essere distaccati da sé o dalla realtà, paura di impazzire o di perdere il controllo, paura di morire” , è cresciuto esponenzialmente a partire dagli anni ’90 ed è uno dei disturbi la cui incidenza è aumentata durante e dopo il Covid.
Tutti ne conoscono più o meno i sintomi, ma quello che la psichiatria descrittiva non ci dice è il senso dei sintomi. Da dove viene questa paura che esplode improvvisa e senza controllo? Perché esplode? Perché imparare a riconoscerne le manifestazioni non ne aiuta la comprensione? Insomma si impara a riconoscerlo, a gestirlo (che è un primo passo importantissimo) ma non si riesce a capirlo. Anzi, è proprio la sua incomprensibilità, unità all’imprevedibilità, a renderlo ancora più temuto.
Oggi voglio raccontarvi la storia di Pan, nella speranza di riuscire a rendere un po’ più afferrabile il senso, il significato dell’esperienza del panico.
Iniziamo dal nome: panico viene dal dio Pan, un dio particolare perché è l’unico mortale (ho imparato col tempo, tanto, tanto tempo, l’importanza dei dettagli nei miti greci!). Egli è figlio della ninfa Penelope e del dio Ermes. Il mito narra che Penelope, giunto il momento di partorire, si appartò nella foresta per far nascere in tranquillità suo figlio. Cercò un angolo tranquillo e silenzioso, con un bel prato erboso vicino a un ruscello e lì, tra il cinguettio degli uccelli e qualche farfalla, si accasciò e partorì il suo bambino. Poi, lo prese in braccio per guardarlo con occhi innamorati ma, una volta sollevato, si accorse che il figlio era un mostro per metà umano e per metà caprone. Così Penelope, terrorizzata, abbandonò il neonato in mezzo al prato e fuggì via.
Ora, immaginiamoci il piccolo Pan che nudo e inerme viene al mondo e lasciato lì, solo e abbandonato, con una ferita che lo lascia senza respiro.
Allora forse, per capire quello che succede al piccolo Pan e alle persone che soffrono di attacchi di panico, non basta fermarsi alla paura ma occorre aprirsi a un’altra dimensione che è quella dell’abbandono, della solitudine. La solitudine di chi si trova esposto al mondo senza protezione, senza mezzi, come cuccioli lasciati soli dalla mamma. Soli da morire, soli che ci si può morire.
La paura in luogo della solitudine, i sintomi fisici al posto di ciò che è indicibile, non elaborabile perché non è arrivato alla relazione, non ne ha avuta la possibilità. E resta insuperabile.
Se ci mettiamo al posto del piccolo e mortale Pan ci è più semplice capire e dare un senso a tante delle esperienze che caratterizzano gli attacchi di panico, come ad esempio l’agorafobia. Tutti noi abbiamo bisogno di crescere e vivere in una rete di relazioni e mediazioni affettive che ci aiutano ad uscire di casa e ad andare per il mondo. Se queste vengono a mancare, trovarsi in mezzo a una piazza piena di gente e privi di qualsiasi riferimento può creare vertigine e paura. Ecco che, per paura di avere paura, si smette di stare da soli e si cerca spasmodicamente la vicinanza di persone affettivamente significative.
Gli adolescenti tornano a dormire nel letto coi genitori, i giovani e le giovani adulte non riescono più a guidare un’auto se non accompagnati dai/dalle partner, ecc. E non è un caso che non ci si ammali di disturbo da attacchi di panico in età avanzata. L’esordio – sempre più precoce, tra l’altro – avviene ora tra l’adolescenza e l’età adulta, periodo in cui si esce di casa per andare nel mondo. E’ come se venisse a mancare la gradualità di un passaggio, anzi proprio come se non ci fosse un passaggio ma una terribile e drammatica esperienza di separazione dalla comunità, come di solito avviene con la morte e/o la follia (si pensi alla paura di morire, alla paura di impazzire).
La radice dell’attacco di panico, quindi non è la paura, ma l’esperienza precocissima di essere sovraesposti al mondo, senza mediazione, né protezione. Un attacco di profondissima solitudine.