LA VITA NON VISSUTA ACCUMULA RANCORE VERSO DI NOI. UNA LETTERA DI JUNG SULLA PERDITA
La vita non vissuta accumula rancore verso di noi.
Una lettera di Jung sulla perdita
L'altro giorno discutevo con una mia amica sul perché è tanto difficile vivere in pienezza, rimanendo fermi in una zona di comfort anche quando di comodo c'è rimasto poco e quel poco assomiglia sempre di più a una forma stagnante di rassegnazione. Una rassegnazione "normale, naturale" che offre a tutti uno straccio di consolazione chiamata "mal comune". E sarà stato per il mare che avevamo di fronte ma io ho iniziato a pensare alla fatica che sempre più persone fanno per galleggiare, piuttosto che nuotare. Paradossale no?
Questa lettera di Jung fu scritta per consolare un'amica in seguito alla morte del suo caro marito, ma contiene anche delle riflessioni che vanno ben al di là delle circostanze in cui egli la scrisse. Parla di una perdita che è - in primis - rinuncia a vivere la propria vita; di quello che succede quando si decide di vivere un'esistenza molto - troppo - lontana dalla nostra anima, una vita ben diversa da quella che avrebbe scelto noi, come avrete modo di leggere tra qualche riga. Jung ci mette in guardia anche rispetto alle conseguenze del rancore e del rimpianto, considerazioni ancor oggi attualissime e utili a capire il perché della crescita esponenziale dell'aggressività e dell'odio nei confronti dell'altro da noi.
A voi il testo
«Mia cara amica,
lei si chiede, e mi chiede, come possa la vita continuare dopo un evento così doloroso come solo può esserlo il distacco dall’amato, dalla persona cioè alla quale abbiamo unito il nostro desiderio e con la quale abbiamo affidato tutto noi stessi nelle mani del futuro. E’ questo è un interrogativo al quale, debbo confessarle, non so dare risposte.
Per quanto vittoriosa sia la fede, per quanta temperata, pure essa scienza dell’animo umano, ebbene essa ci conduce solo là dove non si può che ammettere, per quanto a malincuore, la propria ignoranza.
Ugualmente lei mi impone di osare, e giustamente. Ebbene, per cominciare, debbo avvisarla di non prestare orecchio alle facili consolazioni che certamente riceve e riceverà e che sempre più d’altra parte si vanno facendo folla intorno a noi, complice la stessa psicologia di cui vorremmo essere fedeli e umili testimoni. Le consolazioni consolano anzitutto i consolatori. Consentono a essi di coltivare l’illusione di essere immuni da ciò che agli altri è toccato in sorte, e ancor più d’essere saggi, prudenti e avveduti. Così sentendosi al riparo e al sicuro, essi conservano la loro buona reputazione al prezzo di qualche buona parola. Ma, può esserne certa, se fossero onesti con se stessi, come dicono di esserlo, con gli altri, dovrebbero ammettere sinceramente che le consolazioni che offrono, consapevoli o meno che ne siano, nascondono null’altro che commiserazione per sé e risentimento per la vita.
Ecco dunque un primo consiglio: né commiserazione per sé né risentimento per la vita.
Benché oscuro sia lo sfondo sul quale la morte si manifesta, altrettanto oscuro quanto quello della vecchiaia e della malattia, per non dire di quello del peccato e della stoltezza, ebbene è lo stesso sfondo sul quale si staglia il sereno splendore della vita. Per la nostra salute mentale sarebbe perciò un bene non pensare che la morte non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e sconosciuto processo vitale: sia nei giorni dolorosi nei quali precipitiamo per la perdita di chi ci è caro sia nei giorni tristi nei quali siamo sorpresi dal pensiero della nostra stessa morte. La nostra morte è un’attesa o, se vuole, una promessa che non è mai compiuta. Per questo essa non ci impone di vuotare la nostra vita ma piuttosto di procedere alla sua pienezza. Mentre la morte ci toglie ciò che ci è più caro, al tempo stesso ci restituisce a ciò che ci è più prezioso.
Non è il mistero della morte che siamo chiamati a sciogliere: piuttosto è quello della vita.
La vita è un imperativo assoluto al quale nessuno deve sottrarsi. Per quanto ostico ci paia il compito, per quanto insostenibile, per quanto ostile, abbandonarci a noi stessi, abbandonare noi stessi non è contemplato tra le molte possibilità. E’ la vita che dobbiamo piuttosto, direi addirittura, arrenderci alla vita e al suo costante fluire. A questo scorrere non possiamo imporre alcun argine, né potremmo tentare di deviarlo o di mutarne la traiettoria. Ciò sarebbe assai sciocco e per molti versi pericoloso. Se vogliamo inimicarci la vita, se vogliamo davvero averla contro sappiamo come fare: rinunciamo a viverla. Vi sono numerosi modi per ottenere questo, l’ultimo dei quali, il più stupido e spietato, è troncarla con le nostre stesse mani. Questo è il supremo peccato. Se ci teniamo al di sopra di questo baratro potremo sempre, in ogni caso, imporre alla vita un corso predeterminato, forzarla o sospenderla, in una parola dirigerla.
Abbiamo infiniti compiti che possiamo imporci e infinite mete verso le quali orientarci. Tutto ciò fa pur sempre parte della nostra vita, ma è ciò che la nostra vita ci chiede? La vita che abbiamo scelto per noi potrebbe infatti rivelarsi ben diversa da quella che avrebbe scelto noi.
Il problema è allora questo: giunto alla fine dalla mia vita che cosa mi ritrovo tra le mani? Se trovo solo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato non sarà gran cosa. Ma potremmo trovare ben di più, ben di peggio.
Ogni vita non vissuta accumula rancore verso di noi, dentro di noi: moltiplica le presenze ostili. Così diventiamo spietati con noi stessi e con gli altri. Intorno a noi non vediamo che lotta, cediamo e soccombiamo alle perfide lusinghe dell’invidia. Si dice bene che l’invidia accechi: il nostro sguardo è saturo delle vite degli altri, noi scompariamo dal nostro orizzonte. La vita che è stata perduta, all’ultimo, mi si rivolterà contro.
Perciò, l’ultima cosa che vorrei dirle, mia cara amica, è che la vita non può essere, in alcun modo, pura rassegnazione e malinconica contemplazione del passato. E’ nostro compito cercare quel significato che ci permette ogni volta di continuare a vivere o, se preferisce, di rispondere, a ogni passo, il nostro cammino.
Tutti siamo chiamati a portare a compimento la nostra vita meglio che possiamo.»
Carl Gustav Jung
Chi sono?
SERENA PERONI PSICOLOGA E PSICOTERAPEUTA
Civitanova Marche, Fermo, Macerata
Mi sono laureata in psicologia clinica e di comunità presso l'Università di Urbino. Come psicologa ho svolto attività di docenza in corsi di formazione professionalizzanti per assistenti alla comunicazione. Corsi di formazione per insegnanti sui Disturbi specifici dell'Apprendimento. Sono stata cultrice della materia presso l'Università di Macerata per la disciplina di Patologia della comunicazione. Ho collaborato alla progettazione e realizzazione di screening per la dislessia. Ho conseguito la specializzazione quadriennale post-lauream in psicoterapia ad orientamento analitico presso l'Isipsé di Roma (istituto di specializzazione in psicologia psicoanalitica del sé e in psicoanalisi relazionale), approfondendo gli aspetti relativi all'intersoggettività e alle tematiche di genere. Ho conseguito l'abilitazione alla pratica EMDR (Eyes Movement Desensitization and Reprocessing). Svolgo attività di libera professione dal 2010.
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